SEBASTIÃO SALGADO (1944-2025)
- Cristina Comelli
- 24 mag
- Tempo di lettura: 2 min
di Roberto Mutti

Quella piccola Leica che si era ritrovata fra le mani gliela aveva passata la compagna di una vita, la moglie Lelia. Che cosa doveva farsene quel giovane talentuoso economista già proiettato in un futuro in qualche organizzazione internazionale? Spesso la storia appare nei suoi aspetti più sconvolgenti ma, siccome la vita è dialettica, talvolta tutto si trasforma mostrando là in fondo al tunnel una intensa luce.
Così l’avvento della feroce dittatura nel suo Brasile lo spinse alla militanza nella sinistra ma anche a spostarsi in Europa e a usare la fotocamera come un’arma per raccontare la realtà. Nel 1974 scoppia in Portogallo la “rivoluzione dei garofani”: Sebastião e Lelia raggiungono in auto il paese per documentare la caduta di uno degli ultimi regimi fascisti. Ora la fotografia è finalmente la strada in cui Salgado crede e i risultati dei suoi reportage lo confermano: le sue prime fotografie che in tutto il mondo si vedono sono quelle dell’attentato a Ronald Reagan avventurosamente da lui scattate ma sapete com’è tutti guardano l’immagine ma non la firma di chi l’ha realizzata.
Tutto cambia quando esce sui giornali e i periodici di tutto il mondo un reportage che racconta qualcosa di sconosciuto, quanto succedeva a Sierra Pelada, una miniera a cielo aperto dove lavoravano alla ricerca dell’oro migliaia di persone in un paesaggio paragonabile all’inferno dantesco. Le tante riprese scattate in uno straordinario bianconero vivendo fra queste persone che non erano schiavizzate anche se lo sembravano furono una rivelazione: era nato un grande fotografo che però poteva contare su quella formazione da economista che gli faceva comprendere a fondo le dinamiche del lavoro. Già perché quelle immagini erano parte di una più ampia ricerca (“La mano dell’uomo” era il bellissimo titolo da lui scelto) con cui rispondeva a quanti dicevano che ormai il lavoro manuale era stato sostituito dalla meccanizzazione mostrando da vicino i segni della fatica, proprio come aveva fatto Lewis Hine – che non era un economista ma un sociologo – per raccontare quella negli anni della rivoluzione industriale.
Come capita sempre a chi fa questo mestiere, da allora Salgado ha girato il mondo osservandone gli aspetti più crudeli da cui ha tratto immagini di grande intensità passando dagli esiti della Guerra del Golfo alla documentazione degli esodi di intere popolazioni. Poi, dopo quanto visto in Ruanda, decide che, se vuole non perdere definitivamente la fiducia nell’uomo, deve spostare il suo sguardo sulla natura con grandi, complessi e affascinanti lavori dome “Genesi” e “Amazȏnia”. Ne nascono libri e mostre di grande fascino ma, siccome il successo non lo si perdona a nessuno, ecco che circola la più inconsistente delle accuse, quella di produrre immagini estetizzanti. Sono, invece, affascinanti e spettacolari come la natura sa esserlo: per il grande fotografo brasiliano non sono fine a sé stesse ma servono a responsabilizzarci. Chi si ferma di fronte alla indubbia bellezza di quelle riprese crede che quello di Salgado sia un messaggio in fin dei conti tranquillizzante e, invece, per lui era il contrario perché non era convinto che il mondo stesse per sparire ma che lo fosse il genere umano.
Roberto Mutti
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